Paola Grandis

25 aprile e l'assalto al Forno delle Grucce

Prima parte - "La Storia siamo noi", scrisse De Gregori

Questo lunedì siamo a cavallo di due celebrazioni estremamente importanti per la nostra repubblica: la festa della Liberazione italiana dal nazifascismo – il 25 aprile, appunto – e il Primo Maggio – festa dei lavoratori.

Oggi voglio raccontarvi una storia vera che, al contrario di come forse suggerisce il titolo, non si svolge né il Primo Maggio né il 25 aprile, ma l’8 settembre del 1943 e per i nostri protagonisti inizia qualche mese prima dello stesso anno.

Cosa c’entrino allora la festa della Liberazione e l’assalto al Forno delle Grucce, di manzoniana memoria, lo capirete man mano che vi narro la storia.

E poi lo avrete capito, ormai, che con me Manzoni c’entra sempre

Antefatto: Torino sotto i bombardamenti

Nel 1943 a Torino, masse intere di persone sfollavano senza voltarsi indietro.

Quell’anno, anche per la presenza della Fiat che Hitler sperava di smontare pezzo a pezzo e di ricostruire in territorio tedesco, era scesa sulla città una pioggia di bombe.

Il primo bombardamento sulla città, ad opera dell’aviazione inglese, era avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 giugno del 1940, dopo che Mussolini da Piazzale Venezia, aveva reso ufficiale l’entrata in guerra del nostro Paese. 

Nella notte tra il 12 e il 13 di luglio del 1943 avviene però il bombardamento più grande, quello che procurerà a Torino le sue ferite maggiori. Quello che Pavese racconta con così tanti dettagli ne “La casa in collina”.

L’ultimo raid avvenne il 5 aprile del 1945: dieci giorni prima della Liberazione.

C'era una volta…

In questo contesto, il 13 luglio del 1943 una famiglia in particolare decise di sfollare.

Non la si poteva definire una famiglia tradizionale, almeno come oggi la intendono i puristi della questione: ho come il sospetto che le famiglie tradizionali siano sempre state un mito sopravvalutato.

Era infatti composta da:

  • una nonna di cinquant’anni, che chiameremo Maria e che per i parametri odierni, di anni sembrava averne più di ottanta anche per colpa dei numerosi bicerin giornalieri. Questa bevanda torinese è sì  a base di caffè e panna, ma soprattutto di alcool. E nonna Maria i bicerin se li preparava abbondando di quest’ultimo ingrediente .
  • c’era poi una figlia rimasta vedova a soli vent’anni, che chiameremo Rita, madre di
  • due ragazzi, una femmina di 17 anni di nome Irene e un maschio di 16 di nome Luigi.

Come molti in città, in quella terribile notte a cavallo tra il 12 e il 13 luglio, queste persone persero tutto.

Tutto, fuorché la vita, per parafrasare Foscolo ne Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis .

 Abbiate pazienza, oggi mi va così.

Perdono tutto perché se una casa viene rasa al suolo da una bomba e tu e i tuoi familiari avete salva la vita, del resto non rimane più nulla, neppure abbastanza per riempire una borsa di plastica.

Ovviamente allora non c’erano le borse di plastica, ma tanto Irene e Luigi  non avrebbero avuto nulla da metterci dentro: né giocattoli, né vestiti, né libri o quaderni della scuola.
Era bruciato tutto.

Rita e Maria capiscono che devono fare qualcosa e decidono di sfollare a Susa

In quella cittadina non conoscevano nessuno di particolare, né parenti né amici, vi avevano giusto fatto qualche scampagnata quando prima della guerra la loro vita si poteva ancora definire normale, grazie alla panetteria di famiglia gestita da Rita, anche questa polverizzata dalle bombe in quella  maledetta notte di luglio.

Tutti e quattro però sapevano che dovevano andarsene dalla città prima di un altro bombardamento, anche solo per trovare qualcosa da mangiare: erano anche rimasti senza soldi, tolti i pochi che si erano portati nel rifugio quando era scoppiato l’allarme.

In tutta la giornata del 13 luglio e anche per i quattro giorni a venire, solo una corriera partiva dalla stazione di Torino Porta Nuova e andava fuori città, guarda caso, proprio a Susa. 

Erano tempi in cui le scelte avvenivano così. Si faceva come si poteva.

Un mese e mezzo di quasi vacanza

“La fame che ho patito in quei giorni, non me la scorderò mai. Mai!” mi racconterà Luigi, molti anni dopo.

Quando  la famigliola  arrivò a Susa, dopo un viaggio che definirlo un’odissea è un eufemismo, comprarono del pane per cena, dopo essere rimasti digiuni per tre giorni.

Di quei tempi non si trovava molta farina per fare il pane e ci si accontentava di qualsiasi altro cereale che non fosse il grano.

“Il pane di riso era un mattone immangiabile e i vecchi che non avevano più denti, neppure ci provavano, nonostante la fame. Il pane nero era un lusso.” mi racconterà Irene.

A Susa, proprio per la sua posizione strategica sul confine francese, c’era una grande caserma italiana che da un anno a quella parte aveva raddoppiato i suoi abitanti: erano arrivate delle guarnigioni tedesche.

I soldati, italiani e tedeschi, a differenza della popolazione, avevano diritto alla loro razione di pane, possibilmente bianco, morbido e buono. Del resto  la farina la fornivano loro.

Rita propone al panettiere di assumerla come aiutante e come commessa, ma lui preferì assumere Luigi, più giovane  e più inesperto, ma uomo.

Da metà luglio del 1943, Luigi va in bottega e tutte le notti prepara il pane, nell’ordine, per i soldati, per la famiglia del panettiere, per la sua famiglia e per i Valsusini.

Ai nostri quattro protagonisti non parve vero di avere finalmente almeno da mangiare.

Tedeschi buoni e tedeschi cattivi: la fine della quasi normalità

Durante la loro permanenza a Susa, Irene e Luigi scoprono che non tutti i tedeschi sono cattivi.

Quelli di stanza a Susa, sono della Wehrmacht , cioè dell’esercito “normale” tedesco,  arrivati in Italia da amici e alleati

Non hanno nulla contro gli abitanti di Susa e delle valli circostanti: con una parte di loro anzi fraternizzano. Certo non erano teneri né con gli ebrei né con i pochi partigiani della zona – i così detti banditen – ma non erano la Gestapo. 

Per il momento e per fortuna, Hitler e i suoi si erano scordati di Susa, un avamposto ormai di scarsissimo rilievo dopo la vittoria sulla Francia e la cattiva figura fatta dai contingenti italiani.

Questo, almeno, sino agli inizi di settembre.

Il primo settembre infatti, il militare tedesco che passava ogni mattina a ritirare il pane e che in quegli anni di guerra era diventato un poco amico del panettiere e di Luigi, confidò, in gran segreto ed esponendosi parecchio, che dovevano prepararsi a un grosso cambiamento: il suo contingente era stato destinato altrove e il giorno seguente sarebbero partiti. 

Al loro posto, nel giro di qualche giorno, sarebbe arrivata la Gestapo.

E, ci tenne a sottolineare perché i suoi nuovi amici italiani comprendessero bene, la Gestapo non era la Wehrmacht: loro stessi la temevano.

Ma questa è una storia in due puntate, qui troverete la conclusione.